“Orecchia, che zona uso io? La b…”.

“La biro!”.

“La…biro. Dunque, io uso la biro. Il signor De Sisti usa il pennarello, giusto? E Trapattoni la penna stilografica… ma senza l’inchiostro, perché ci sputa direttamente nell’occhio del suo allenatore in seconda! La B-zona e stia attento!”.

“C’è 4-5-1 o 4-4-2, io invece uso una cosa diversa: il 5-5-5.”.

“Che si gioca in quindici?”.

“Lo sapevo che la bandiera doveva rispondere così, perché nessun altro l’ha fatto. Non è vero quindici, sono sedici, perché ti sei dimenticato il portiere. Io ho detto quindici perché mentre i cinque della difesa vanno in avanti i cinque attaccanti retrocedono e così viceversa e la gente pensa “Che c’ha cinque giocatori in più?”. Durante questa confusione generale le squadre avversarie si diranno “Ah ah…che sta succedendo?”. E non ci capiscono niente!”.

“Nemmeno noi!”.

Questo dialogo, tratto dal film “L’allenatore nel pallone”, è uno dei più conosciuti del mitico Oronzo Canà. A dire il vero non c’è una battuta di quella pellicola che gli amanti della commedia all’italiana non ricordino a memoria. L’allenatore pugliese (di nome e di fatto), interpretato magistralmente da Lino Banfi, è diventato un’icona non solo per gli appassionati di quel genere cinematografico ma anche per tutti gli amanti del calcio passati dall’Italia. Non solo gli italiani quindi, perché anche i calciatori più o meno famosi che hanno giocato nel nostro Paese sono stati “iniziati” con i dettami tattici del grande Canà. Chi di noi non ha sognato di far parte della Longombarda del presidente Borlotti; quanti avranno canticchiato al compagno di squadra che doveva far vincere la partita il motivetto che Lino Banfi ha utilizzato come canzoncina della buonanotte per il brasiliano Aristoteles “…e speriamo che domenica vuoi segnar, magar, magar. Ciccos’ cissos’ canos canos.”; o ancora a chi non sarà venuto spontaneo far seguire al “Vincere e vinceremo” il triste “Perdere e perderemo!”?

Un film che ha raccontato l’Italia del pallone, o meglio l’Italia “nel pallone”, di quegli anni grazie anche alla partecipazione di allenatori e calciatori come Picchio De Sisti (“E ci rompo anche la noce del capocollo”), Carletto Ancelotti, Ciccio Graziani (al quale Lino Banfi aveva pronosticato la calvizie dopo le cinque “pappine” prese dalla Roma) e tanti altri. L’allenatore nel pallone, insomma, è diventato un vero e proprio cult e il suo protagonista, Oronzo Canà, una delle icone del più rappresentative di tutti i tempi.

Pochi sanno, però, che Oronzo Canà è realmente esistito. Infatti l’allenatore della Longombarda ha un nome e cognome che hanno fatto parte del calcio italiano dal 1930 sino al 1978, ovvero Oronzo Pugliese. Nativo di Turi, in provincia di Bari, Pugliese è stato in principio un discreto calciatore che ha calcato i campi delle serie minori in Puglia e in Sicilia per poi intraprendere, successivamente, la carriera da allenatore che lo portò ad essere soprannominato “Il mago di Turi”. Dopo un’ottima stagione col Siena nel 1958-59, Pugliese inizia a modellare il suo capolavoro calcistico col Foggia nella stagione successiva, conducendo i rossoneri dalla Serie C alla Serie A in quattro stagioni. Coi garganici Oronzo Pugliese esprime la sua idea di calcio anche durante la prima stagione nella massima serie, dove, come Davide contro Golia, si ritrova a dover incrociare, con un organico modesto, veri e propri giganti del calcio nazionale.

Fu proprio contro una di queste corazzate, ovvero l’Inter del Mago Herrera, che Oronzo Pugliese si conquistò l’appellativo di “mago” al pari del suo più celebrato collega. Alla guida della matricola Foggia riuscì nell’impresa di battere la Grande Inter di Helenio Herrera che, essendo avversaria troppo forte per essere sfidata a viso aperto, fu affrontata con un solidissimo catenaccio, disponendo strettissime marcature a uomo sugli attaccanti neroazzurri. La tattica conservativa del “Mago di Turi” consentì al Foggia di avere la meglio sui neroazzurri per 3-2 e da allora Pugliese divenne un personaggio.

Ai suoi meriti sul campo venivano affiancati i suoi modi esuberanti che lo rendevano idolo delle tifoserie. Il sale sparso intorno alla panchina prima dell’inizio delle partite, ad esempio, non è stata una trovata di Lino Banfi ma una vera e propria pratica scaramantica che veniva utilizzata dal tecnico di Turi. Anche durante le interviste il suo carattere esplosivo regalava perle divenute assiomi del mondo del pallone, come quando gli chiedevano come avrebbe fatto ad affrontare una squadra sulla carta molto più forte lui rispondeva deciso che “Undici siamo noi e undici sono i nostri avversari.”; o ancora quando alla domanda “Se per rinforzare la sua squadra userebbe stranieri”, rispose che “Già non ci si capisce tra noi italiani, figuriamoci con gli stranieri.”.

Dal 1965 al 1968 ebbe la sua grande occasione sulla panchina della Roma dove divenne l’idolo del pubblico ma non ottenne i risultati sperati. Alla prima stagione sulla panchina capitolina restò in vetta alla classifica per circa due mesi, per poi terminare il campionato all’ottavo posto; si tolse tuttavia la soddisfazione di battere nuovamente l’Inter del mago Herrera, questa volta per 2-0 all’Olimpico. Non andò meglio nei due anni successivi (1967 e 1968), terminati entrambi al decimo posto; fece in tempo comunque a lanciare la giovane promessa Fabio Capello. Dopo la parabola discendente intrapresa negli ultimi anni della sua carriera Oronzo Pugliese, suggerito a Lino Banfi da Nils Liedholm quale modello per il suo “allenatore nel pallone”, si ritirò a vita privata nella sua Turi dove morì l’11 marzo del 1990.

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui