Il dottor Rodolfo Tavana (alias Rudy Tavana) è il medico sportivo più vincente della storia del calcio italiano ed europeo. Una vera e propria leggenda vivente la cui passione per il calcio e per la propria professione, dopo tanti anni di militanza sul campo, lo spinge ancora a continuare a svolgere il suo lavoro con entusiasmo e professionalità. Per elencare i trofei vinti bisogna innanzitutto contestualizzare la sua carriera nel mondo del calcio: è stato uno dei protagonisti del grande Milan, del quale è stato medico sociale per 30 anni, con una interruzione dal 2003 al 2011. Conosciuto anche come “il medico di Arrigo Sacchi” ha vissuto il Milan dell’era Berlusconi sino ad arrivare al Milan vincente della Super Coppa di Doha del 2011. Proprio quell’anno, tra l’altro, fu il primo ad intuire la gravità del problema cardiaco di Antonio Cassano. Nella sua personale bacheca vi sono 6 scudetti, 4 tra Coppe dei Campioni e Champions League, 2 Coppe Intercontinentali, 3 Supercoppe Europee, 6 Supercoppe italiane e una Coppa Italia.
Dottore la prima domanda, in maniera inusuale, ma credo doverosa e sicuramente sentita in questo momento, è legata alla salute sua e dei suoi cari.
Fortunatamente stiamo tutti bene. Anche per quanto riguarda il Torino FC tutti i calciatori e i membri dello staff stanno bene non avendo manifestato alcun sintomo da Covid-19, questa è certamente la cosa più importante ad oggi.
Cosa la spinge, dopo tanti anni di onorata carriera, a rimanere ancora in prima linea?
La passione. Non potrebbe essere altrimenti. Qualsiasi lavoro, se mosso da quella forza interiore che va oltre i diritti e i doveri, gli oneri e gli onori, porterà a donarti completamente ad esso. Molte volte questo può ritorcersi contro in quanto non c’è quel distacco necessario a fare da “cuscinetto” tra il professionista e l’uomo che la notte dovrebbe andare a dormire sereno. L’empatia con la quale ho sempre svolto la mia professione, invece, ha fatto sì che molte notti portassi con me le preoccupazioni dei miei pazienti. Un nome su tutti: Marco van Basten. In occasione del suo intervento alla caviglia, provai in tutti i modi a persuaderlo dal finire sotto i ferri. A distanza di anni, lo stesso Marco ammetterà che avrebbe dovuto prestare ascolto alle mie parole. Un’ammissione che sa di beffa per me, in considerazione dell’affetto che ci lega ormai da tantissimi anni.
Curiosando su internet ho notato il commento di uno dei suoi pazienti: “Il dottor Tavana non è un medico qualunque, è un amico del paziente”. Credo che rispecchi tanto il dottore Tavana, ma anche, e forse più, l’uomo che lei è.
Torniamo in pratica al concetto di prima riferito all’empatia. Mi piace ricordare un episodio accaduto nel 1984. Ricevetti una telefonata da Los Angeles. Il mio interlocutore aveva appena vinto la medaglia d’oro nei 10.000 metri ai Giochi Olimpici di Los Angeles: era Alberto Cova, che avevo seguito personalmente per un infortunio che rischiava di compromettergli la partecipazione alle Olimpiadi. Quella telefonata ricevuta, mi ha ripagato di tutto il tempo impiegato nel prestargli le cure più adeguate; di tutte le ore di sonno venute a mancare a causa dei pensieri che giravano vorticosamente nella mia e alla ferma volontà di rimettere Alberto nelle condizioni migliori per gareggiare. Più recentemente son riuscito ad intuire per tempo la gravità della situazione cardiaca di Antonio Cassano. Un’intuizione che probabilmente ha salvato la vita ad Antonio.
Parlando invece della sua carriera. Sono convinto che il calcio vissuto nei suoi anni al Milan, sia stato il calcio più bello ed entusiasmante che ci sia mai stato: fuoriclasse che hanno fatto la storia di questo sport, stadi pieni, l’entusiasmo della gente e presidenti tifosi in grado di regalare sogni ai supporters della propria squadra. Cosa è cambiato rispetto al calcio di oggi?
Credo che il campionato italiano abbia toccato l’apice della sua storia calcistica nel 2003 quando, tre squadre su quattro, andarono in semifinale di Champions League: Juventus, Inter e il mio Milan che poi vinse la “coppa dalle grandi orecchie“. Lo stesso percorso l’ha fatto prima la Spagna e negli ultimissimi anni l’Inghilterra. Come in ogni ambito della vita, anche il calcio non può sottrarsi agli alti bassi che si alternano nelle stagioni. L’Italia ha subito un grave colpo economico nel 2008 che l’ha portata a non consentire più, almeno per il momento, di avere quei presidenti mecenati che hanno contribuito a fare grande il calcio italiano.
Ha vissuto il Milan di Berlusconi, Arrigo Sacchi e degli olandesi. Quali sono i momenti di quella squadra leggendaria a cui è più legato?
Difficile fotografare solo qualche istantanea di tanti anni di carriera. Se devo pensare ad un momento triste, sicuramente è quello legato alla caviglia di van Basten. Forse è il mio rimpianto più grande: non essere riuscito a “salvarlo” dall’intervento che l’ha portato poi a dover abbandonare il calcio, privandoci così di uno degli interpreti più luminosi della storia di questo sport. I momenti belli, invece, sono tanti. Il primo scudetto, quello del 1987/88 è come “il primo bacio”, non si scorda mai. Ricordo che l’ultima di campionato noi giocavamo a Como, mentre a San Siro c’era l’Inter. A fine partita i cugini neroazzurri furono costretti a lasciarci il Meazza perché stavamo arrivando da Como sul pullman per festeggiare il tricolore; e chi se lo dimentica quel giorno! La finale di Coppa Campioni, allora si chiamava così, del 1994 è un altro ricordo indelebile dentro di me. In panchina c’era Fabio Capello e arrivavamo alla finalissima senza Baresi e Costacurta, non due qualsiasi. Il giorno prima il tecnico del Barcellona, Johan Cruijff, si fece fotografare con la coppa in braccio. I giornalisti ci davano per sfavoriti e qualcuno, addirittura, ci consigliò di perdere a tavolino, almeno avremmo “incassato” solamente 2 gol. Loro avevano Romario, Stoičkov, Guardiola, Koeman e tutti gli altri; ma noi non scendevamo in campo con dei ragazzini alle prime armi. Maldini, Tassotti, Panucci, Desailly, Savićević, insomma avevamo campioni veri pure noi. Quelle parole e quella foto furono forse determinanti per far scattare in tutto il Milan un moto d’orgoglio, che ci portò a trionfare come tutti ricordano per 4-0.
Van Basten, cosa lo rendeva unico?
Le sue capacità di acquisizione motoria fuori dalla norma. Marco, per genetica, aveva una predisposizione naturale al gesto atletico e alla coordinazione. Avrebbe potuto gareggiare ad alti livelli in qualsiasi sport. A questo va aggiunta la sua mentalità e il suo modo di vivere. Era un professionista modello, un perfezionista. Non aveva vizi e conduceva una vita senza eccessi che gli consentiva di poter sfruttare al meglio le proprie doti. Caratteristiche che sono proprie di tutti i più grandi. Cambiando disciplina, se si guarda al mondo del basket, Michael Jordan e Kobe Bryant erano gli esempi perfetti di questo approccio professionale allo sport e alla vita che deve condurre uno sportivo. Motore di tutto questo è senza dubbio l’umiltà che porta sempre a volersi migliorare e non sentirsi mai arrivati. Ricordo che una volta Kobe Bryant aveva bisogno di uno macchinario terapeutico che avevamo a Milanello. Quei giorni, si trovava in Italia e mi chiese se sarebbe stato possibile venire per fare terapia. Dopo avergli aperto le porte della nostra struttura, lo informammo dell’orario di apertura e che sarebbe potuto arrivare anche a mezzogiorno. La sua risposta lasciò tutti basiti: “Se è possibile alle 7:15 sono da voi”. Il giorno dopo si presentò puntuale a alle 7:15 del mattino. Mentalità super!
I suoi calciatori l’hanno vista sempre come un punto di riferimento. La sua presenza nelle squadre non era quella del semplice medico sportivo, ma una guida paterna che incideva anche sul rendimento del singolo e della squadra. Quanto può incidere tutto questo sui risultati della squadra?
Ho sempre provato ad essere qualcosa di più del semplice medico sociale che coordinava lo staff di una squadra sportiva. Tutt’ora, nel Torino, provo a svolgere il mio ruolo con questo “modus operandi”. Ovviamente, i miei risultati, non potrebbero essere gli stessi se non avessi a disposizione professionisti di primissimo livello che mi aiutano a far rendere al meglio i nostri atleti. Lo scorso campionato, col Toro, abbiamo centrato la qualificazione al turno preliminare di Europa League grazie al lavoro d’equipe, anche, dello staff medico.