Come scrive IlMattino.it
«Seduto sotto un albero a meditare/ mi vedevo immobile danzare con il tempo/ come un filo d’erba/ che si inchina alla brezza di maggio/ o alle sue intemperie». Serve l’incipit di «Haiku», antico inno al silenzio e perla del suo repertorio «santautorale», per dire addio a Franco Battiato nella brezza di un’amara mattina di maggio, anche se la notizia della sua morte a 76 anni l’ha data Franco Spadaro, direttore di «La civiltà cattolica», citando, inevitabilmente, i versi di «La cura»: «E guarirai da tutte le malattie/ perché sei un essere speciale/ ed io, avrò cura di te. Ciao, Franco Battiato».
Non è guarito dalla malattia canaglia – si era detto alzhheimer, si era detto di tutto, in verità – che l’aveva portato via dalla canzone, dalla parola, dalla sua Sicilia Franco Battiato da Riposto (allora Ionia), in provincia di Catania, dov’era nato il 23 marzo 1945. E la sua assenza apre ferite mai rimarginate, scuote il mondo in estinzione della canzone d’autore storica italiana. Oggi risuoneranno le sue canzoni in tutta Italia, si dirà, ed era vero, che per molti di noi è stato e resterà un «Centro di gravità permanente» e che nessun j’accuse scosse l’Italia berlusconizzata quanto il suo lancinante grido di «Povera patria», come quello sconsolato sguardo su una primavera che tardava ad arrivare.
Lo ricorderemo come un Giano Bifronte della nostra cultura popolare – alzati, che sta passando la canzone popolare, quella che segna nel corpo una nazione, non quella delle cofecchie d’accademia e degli happy few sempre happy e sempre più few – insieme sperimentale e pop, alternativo e mainstream, autore e interprete (cos’era quando intonava i lied, «Amore che vieni, amore che vai», «Ruby tuesday», «La chanson de vieux amants» e, soprattutto, «Era de maggio»). Nel bombardamento dei coccodrilli senz’anima si racconterà di come ci abbia permesso di tenere insieme la ricerca dello spirito («Un oceano di silenzio») con quella dell’amore terreno anzi carnale («Tra sesso e castità», «La cura»), il pop più raffinato e sospeso («E ti vengo a cercare») col rock più corposo e d’impatto («Shock in my town»).
Uno, nessuno e centomila come il corregionale Pirandello, Battiato ha sfidato «Il vuoto» e «I giorni della monotonia», alieno nella routine canzonetttara sin dai titoli, dei dischi, delle canzoni. Convinto, come i filosofi della Magna Grecia a cui era fiero di appartenere, che «Niente è come sembra» ha recuperato la filosofia sicula in «Il cammino interminabile» come l’esplosione futurista in «Strani giorni». I testi delle sue canzoni, non solo quelli firmati da Manlio Sgalambro, sono ricchi di citazioni/allusioni/giochi di parole quanto un libro di Eco, si muovono tra filastrocche leggerissime («Cuccurucucu», «L’era del cinghiale bianco»), la leggerezza convive con la profondità, il piacere epidermico con la colta consapevolezza di un ex avanguardista convertito alla comunicazione popolare, le melodie sottili ma inesorabili con improvvisi rovelli elettrici e/o segni del futuro digitale prossimo venturo.
Lui, che cantava seduto nella posizione del loto su un antico tappeto persiano, ha provocato il mondo da cui veniva (le avanguardie) con la filastrocca dedicata a «L’era del cinghiale bianco» e, da quel punto, conquistato anche il primato delle hit parade e dei festivalbar ha punzecchiato il nuovo pianeta su cui era sbarcato con non-canzoni come «L’anima dolorante di Nietzsche», sinfonie elettroniche e muri di chitarre memori di Glenn Branca e dei Sonic Youth prima maniera. Negli ultimi tempi d’attività si era sentito più regista (d’élite) che musicante di massa ma era comunque bellissimo perdersi nel suo incantesimo.